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ITINERARI – SVILUPPO E PROGRESSO – LA CIVILTÀ CLASSICA

UN'ECONOMIA AGRICOLA PER UNA CIVILTÀ URBANA

Quando si parla di «civiltà classica» ci si riferisce a quei dieci secoli scarsi che stanno a cavallo dell'era cristiana, dall'ascesa di Atene alla guida del mondo greco, nel V secolo a.C., al crollo dell'impero romano in Occidente, nel V secolo d.C. L'ambito geografico di questa civiltà ha coinciso grosso modo con il bacino del Mediterraneo, anche se i confini dei grandi imperi che vi si sono succeduti si sono spinti in certi periodi sino alle sponde del Golfo Persico, dell'Oceano Indiano o del Mare del Nord. All'inizio dell'era cristiana per effetto delle conquiste romane i popoli del Mediterraneo avevano raggiunto un'effettiva unità non solo politica, ma anche economica e culturale, che si è mantenuta per circa mezzo millennio a dispetto delle persistenti differenze di lingua e di costumi tra l'oriente ellenizzato e l'occidente latino.
Non c'è pericolo di sopravvalutare il ruolo che in questa unità hanno giocato il mare e i fiumi. Una caratteristica dell'economia antica è la sua pressoché totale dipendenza dalle vie d'acqua. All'inizio dell'età classica i progressi nelle tecniche di costruzione navale e di navigazione avevano reso il costo del trasporto marittimo (o fluviale) incomparabilmente inferiore a quello del trasporto terrestre: una situazione destinata a non cambiare sensibilmente fino all'avvento delle ferrovie. In età romana il trasporto di un carico pesante per un tratto di un centinaio di chilometri su terraferma costava di più della sua spedizione per via di mare dalla Siria alla Spagna, ossia da un capo all'altro del Mediterraneo. Il costo del trasporto via mare di un carico di grano dalla Spagna a Roma poteva arrivare a un terzo del valore del carico. Ma il trasporto su strada di un frantoio per olive (sempre sulla distanza di un centinaio di chilometri) costava quanto il frantoio stesso, il che significa che entro questo raggio era largamente conveniente attrezzarsi per fabbricarlo direttamente.
Gli alti costi dei trasporti terrestri scoraggiavano l'accentramento delle attività manifatturiere e favorivano la proliferazione sul territorio di piccole unità produttive. Si spiegano così, almeno in parte, le dimensioni per lo più ridotte delle imprese produttrici e il grado piuttosto basso di divisione e specializzazione del lavoro all'interno delle officine. Gli esempi di produzione su larga scala e di accentuata divisione del lavoro non mancano, ma sono sempre connessi all'esistenza di una solida organizzazione nel settore del trasporto marittimo o comunque alla vicinanza di porti e di vie d'acqua. Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) parla come di un caso assolutamente eccezionale di certi candelabri i cui boccioli (che sono le parti dove si infilano le candele) e i fusti relativi erano fabbricati separatamente, gli uni in Egina e gli altri a Taranto, per essere poi montati insieme. Lontane nello spazio, Egina e Taranto, più che separate, erano unite dal mare. In ogni caso quei candelabri pare che fossero carissimi: «non ci si vergogna - commentava Plinio - di acquistarli per una somma equivalente alla paga di un tribuno militare».
Quella classica è stata una civiltà prevalentemente urbana: nata nelle città-stato della Grecia, ha avuto più tardi i suoi grandi centri di diffusione nelle metropoli ellenistiche di Alessandria (in Egitto), Antiochia (in Siria) e Seleucia (in Mesopotamia, vicino all'antica Babilonia). L'impero romano è stato l'erede di questa tradizione: un impero cittadino, in cui le caratteristiche della classe dirigente e le forme del potere hanno ripetuto per secoli quelle dell'antica Roma repubblicana, e che si è costruito stendendo sulle regioni di nuova conquista (specialmente in Occidente) una fitta rete di centri urbani che riproducevano all'infinito il modello della capitale.
Le città e le colonie romane erano dotate di larga autonomia. Anche quando il potere imperiale cercò di adeguarsi alla vastità e alla complessità dell'organismo che da lui dipendeva e di esercitare dal centro un più efficace controllo sulla vita delle provincie, la maggior parte delle funzioni amministrative, comprese quelle che riguardavano direttamente affari di interesse generale, come la raccolta delle tasse o la leva militare, restò di pertinenza dei consigli cittadini e del ceto «decurionale» che li esprimeva.
Se la civiltà del mondo classico era urbana, la sua economia era invece essenzialmente rurale. La totalità (o quasi) della ricchezza veniva prodotta nelle campagne e, rispetto alla schiacciante prevalenza della produzione agricola, il valore dei beni prodotti dal piccolo artigianato urbano o dalle poche grandi manifatture esistenti risultava modesto. I grandi patrimoni privati si erano formati tutti (o quasi) nell'agricoltura ed erano costituiti soprattutto da proprietà fondiarie. Tra le città i grandi centri commerciali erano rari e ancora più rari quelli che dovevano la propria prosperità all'artigianato o alla manifattura. Il solo settore manifatturiero che avesse alcune caratteristiche dell'industria moderna, come la produzione in grande serie e la standardizzazione del prodotto, era quella delle fornaci: mattoni, tegole, anfore da vino e da grano venivano fabbricati in milioni di esemplari tutti uguali. Ma si trattava di un'attività assai diffusa sul territorio (dove ha lasciato parecchie tracce della toponomastica: Figline Valdarno, ad esempio, viene da figulinae o figlinae che indica il mestiere del vasaio) e raramente dava vita a impianti di grandi dimensioni.
La città-tipo dell'impero romano aveva una triplice funzione: di sede delle autorità civili e militari, di mercato per i prodotti delle campagne, di residenza per i proprietari terrieri del distretto, la cui vita sociale si svolgeva di norma in città. Questi stessi proprietari costituivano la grande maggioranza del ceto decurionale e monopolizzavano gli uffici municipali. Quanto alle attività produttive, erano essenzialmente rivolte a soddisfare i bisogni dei distretti rurali di cui le città erano centro. Insomma, anziché esprimere (come sarebbe più tardi successo nell'Europa medievale) una specifica economia urbana e un'ambizione di dominio sulle campagne circostanti, le città del mondo classico vivevano in funzione delle campagne, a cui offrivano alcuni indispensabili servizi di carattere prevalentemente amministrativo.
La preminenza delle funzioni amministrative delle città su quelle commerciali e manifatturiere collimava perfettamente con il ruolo di primo piano che lo Stato, e in primo luogo l'esercito, svolgeva nell'economia dell'impero romano. L'assortimento dei prodotti offerti dalle manifatture cittadine era limitato; ma altrettanto limitata era la domanda da parte dei privati. Solo la ristretta classe dei grandi proprietari terrieri poteva accedere a prodotti di pregio e per quanto ricco fosse l'arredo delle loro case, si trattava pur sempre di pochi generi: tessuti, ceramiche, mobili e gioielli. Quanto agli oggetti d'uso corrente, il consumatore di gran lunga più importante era l'esercito e le sole industrie capaci di elevati volumi di produzione (non ultime le industrie minerarie) erano quelle che lavoravano per le necessità della guerra. Nell'Impero romano, però, le forniture per l'esercito erano assicurate da fabbriche gestite direttamente dallo Stato e nelle quali il lavoro era quasi interamente affidato agli schiavi, sicché per l'iniziativa dei privati e per il lavoro degli artigiani liberi restava ben poco.
Oltre che grande consumatore, l'esercito era il destinatario della parte più consistente degli investimenti pubblici per la costruzione di tutte quelle opere che erano necessarie a mantenere in efficienza l'apparato difensivo (strade, forti, città, porti militari, acquedotti, ecc.). L'esercito, infine, costituiva un grande serbatoio di manodopera: molte opere pubbliche venivano infatti direttamente costruite dai legionari. Ancora più importante, forse, era il contributo dei veterani alla fondazione di colonie agricole, che d'altra parte, specialmente nelle regioni di frontiera, erano spesso destinate ad assicurare il vettovagliamento delle guarnigioni locali. Così, la presenza di consistenti reparti dell'esercito era la migliore (e spesso l'unica) opportunità di sviluppo economico che potesse darsi. E poiché le frontiere settentrionali dell'Impero erano quelle dove di norma era concentrato il grosso delle legioni romane, le aree al di qua del Reno e del Danubio sono state quelle di più intensa colonizzazione e di più vivace attività economica.

DECURIONE

«Decurione» (derivato dal latino decem = «dieci») significa propriamente «comandante di un gruppo di dieci» («decuria»). Il termine però ha finito per indicare anche i membri dei consigli cittadini, ossia il ceto dirigente di municipi e colonie romane. Reclutati esclusivamente tra i cittadini agiati e dotati di un certo prestigio sociale, i decurioni appartenevano per lo più alla classe dei proprietari terrieri. Nel tardo Impero andarono a costituire insieme ai cavalieri e ai senatori il gruppo detto degli honestiores (= «i più onorati», da honestas = «onorabilità») in contrapposizione agli humiliores (= «i più umili»).

LE TECNICHE NELL'ETÀ CLASSICA

L'utilizzazione dell'energia comporta l'uso di convertitori, cioè di strumenti atti a trasformare l'energia naturale in energia utile all'uomo. La macchina a vapore, per esempio, è un convertitore che trasforma l'energia termica in energia meccanica; anche il corpo umano è un convertitore in quanto trasforma la energia chimica contenuta nei cibi in energia meccanica e in energia nervosa. Da un punto di vista strettamente tecnico si può dire che l'unico convertitore a disposizione di chi sa sfruttare solo la propria forza è il suo corpo. Per l'uomo primitivo il proprio corpo era di gran lunga il convertitore più importante e le principali fonti di energia a cui si rivolgeva erano quelle che gli permettevano di mantenersi in vita, cioè le piante e gli animali in quanto possibili alimenti. Tuttavia l'uomo imparò presto il modo di amplificare la propria forza e poi di sfruttare l'ambiente in maniera più produttiva.
La grande svolta in questo senso fu segnata, come abbiamo detto più volte, dalla nascita di un'economia fondata sulla cura dei campi e sull'allevamento. Un campo coltivato è un ambiente artificiale che si può considerare come un convertitore di energia di grande efficienza. Si cominciò anche ad applicare la forza degli animali nei lavori agricoli e nel trasporto di carichi pesanti. I progressi in questo settore furono piuttosto lenti: le prime imbrigliature risalgono al 3000 a.C. e la scoperta della ruota al 3500 a.C. circa, ma una bardatura efficiente per mezzo di un collare rigido fu introdotta solo dopo il 400 d.C. e l'uso del ferro di cavallo non è anteriore al 400 a.C. A quella degli animali si affiancò l'utilizzazione di un'altra forma di energia, questa volta non organica, l'energia eolica, per il trasporto marittimo (vele).
Infine, con la metallurgia, cioè l'arte dell'estrazione e del trattamento dei metalli, le possibilità umane divennero enormi, permettendo la creazione di una strumentistica altamente sofisticata.
Nel tentativo di superare i limiti della propria forza fisica l'uomo primitivo aveva elaborato dei dispositivi che utilizzavano tutti o quasi i congegni meccanici fondamentali, leve, molle, ruote, ecc., che pertanto sono difficilmente databili. Costruiti per lo più con materiali deperibili, come legno, corno e osso, almeno per le età più remote non se ne sono conservate tracce, il che però non significa che non esistessero. Talvolta le più antiche testimonianze della loro esistenza sono costituite da raffigurazioni in pitture parietali o incisioni rupestri, più durature.
Possiamo supporre che il più semplice dei dispositivi per moltiplicare una forza, la leva, sia stato utilizzato fin dagli inizi del genere umano: in effetti, il principio della leva si riscontra in modo così diffuso ed evidente in natura ed è di così generale applicazione che è impossibile immaginare che qualcuno l'abbia «inventato». Lo stesso, naturalmente, non si può dire per le sue applicazioni consapevoli, frutto cioè di un progetto, né, tanto meno, per le sue teorizzazioni. Per una compiuta teoria della leva, per esempio, bisogna aspettare il III secolo a.C. e il singolare talento matematico di Archimede di Siracusa.
Tra le più antiche e importanti applicazioni della leva si possono annoverare i remi e le pagaie per la propulsione e per la direzione delle imbarcazioni, un tipo di strumenti che ha subito nel corso del tempo innumerevoli modificazioni, perfezionamenti e adattamenti. Sul principio della leva funziona anche lo shaduf, un dispositivo per sollevare l'acqua caratteristico delle prime società agricole e ancora largamente usato nel Vicino Oriente per l'irrigazione di campi e giardini. Si tratta di un telaio in legno o di un semplice palo, sul quale è imperniato un bilanciere che ha da una parte un secchio per l'acqua e dall'altra un contrappeso che consente di sollevare il secchio senza sforzo. In Egitto le più antiche rappresentazioni dello shaduf risalgono al II millennio a.C.
Tra il secondo e il primo millennio a.C. il principio della leva fu applicato alla spremitura dell'uva e delle olive. Nella fabbricazione dell'olio, prima della spremitura, occorreva separare la polpa delle olive dai noccioli mediante una grossolana macinazione. La polpa, raccolta in modo da far colare il liquido in un recipiente sottostante, veniva poi collocata sotto la pressa, costituita da una pesante trave di legno incernierata a una estremità. La pressione della trave veniva aumentata a volontà con l'aggiunta di pesi alla sua estremità libera o per mezzo di un congegno ad argano. Questo semplice apparato è rimasto in uso per lunghissimo tempo evolvendosi in diverse varianti, la più evoluta delle quali (progenitrice di tutti i tipi di pressa o torchio moderni) presenta al posto dei pesi o dell'argano un meccanismo a vite che agisce direttamente sul coperchio della pressa.
Delle applicazioni del moto rotatorio abbiamo già parlato a proposito della ruota del vasaio, della ruota per carri (da trasporto o da guerra) e delle mole rotanti per la macinazione del grano. Ma le applicazioni dello stesso principio sono innumerevoli e alcune, come il trapano per praticare fori o il trapano da fuoco, sono assai più antiche della ruota del vasaio e di quella da carro. Un esempio di utilizzazione del piano inclinato lo abbiamo incontrato parlando delle rampe con cui gli Egizi trascinavano sino all'altezza voluta i grandi massi adoperati nella costruzione delle piramidi.
Anche il funzionamento delle molle ha in natura innumerevoli riscontri. Molti dei più antichi strumenti costruiti dall'uomo sfruttavano l'elasticità dei corpi (alcuni tipi di trappole, per esempio). Fra tutti l'arco rappresenta un'applicazione particolarmente geniale di questo principio. L'arco è stato per millenni una micidiale arma per la caccia e per la guerra. Ne esistono raffigurazioni che risalgono al Paleolitico superiore. I più antichi esemplari conservati sono invece del Mesolitico: si trattava di armi già perfezionate, costruite in legno d'olmo o di frassino, con l'impugnatura rotonda e le estremità piatte rastremate, tali cioè da offrire la migliore combinazione di flessibilità e resistenza. In età storica sono comparsi archi composti, costruiti cioè con tre strati di materiali diversi incollati insieme, in modo da aumentare la potenza e la solidità del tutto: all'esterno della struttura elastica in legno si usavano tendini di animali (che presentano una forte resistenza alla tensione), e all'interno uno strato di corno (che presenta un'ottima resistenza alla compressione).
L'adozione di questi semplici dispositivi (e di altri come il cuneo o la carrucola) hanno segnato una tappa decisiva nello sviluppo delle capacità umane di amplificare la forza muscolare. Una volta adottati, però, la spinta alla realizzazione di macchine più complesse, che, mediante l'applicazione combinata di quei meccanismi elementari, consentissero un decisivo risparmio di lavoro umano, è parsa esaurirsi. Qualcuno ha detto che teoricamente i Sumeri, se avessero voluto, sarebbero stati in grado di costruire una bicicletta, e che, semplicemente, non l'hanno fatto. Si tratta, come è evidente, di una battuta: il fatto che né loro, né altri dopo di loro abbiano mai fabbricato niente di simile fino al secolo scorso non è certo attribuibile a sbadataggine o a pigrizia. È vero però (ed è quello che la battuta sui Sumeri intende suggerire) che, dopo gli straordinari successi realizzati dall'umanità con la messa a punto delle tecniche agricole e poi di quelle metallurgiche, c'è stato un rallentamento del progresso tecnico, quasi che l'assimilazione e la generalizzazione di quel che si era conquistato richiedesse un lungo periodo di assestamento.
In questo periodo di relativa stasi, durato, si può dire, sino a un migliaio di anni fa, sono stati apportati numerosi perfezionamenti agli antichi congegni e non sono mancate ingegnose invenzioni, ma non si è verificato alcun «salto tecnologico» e niente di veramente rivoluzionario si è affermato nei metodi di produzione. Si chiama «fase di stanca» il momento in cui l'alta marea, raggiunto il suo massimo livello, vi resta per qualche tempo prima di decrescere. Non c'è nulla di strano che qualcosa di simile sia avvenuto nello sviluppo delle tecniche. C'è da sottolineare, semmai, che in questa fase di stanca tecnologica è compreso l'intero arco temporale di quella civiltà classica che (almeno per quanto riguarda la parte occidentale del Vecchio Continente, che è l'area di cui ci occupiamo specificamente) ha rappresentato il punto più alto dello sviluppo culturale del mondo antico. La Grecia classica, per esempio, che pure ha iniziato la tradizione scientifica occidentale elaborandone i metodi e i principi elementari (a cominciare dalla nozione stessa di scienza), nel campo della tecnica ha prodotto una serie piuttosto limitata di innovazioni.
Nelle costruzioni meccaniche e nello sfruttamento dell'energia i progressi realizzati in Grecia tra il VI e il IV secolo a.C. sono legati principalmente all'uso di congegni quali la carrucola, la puleggia, l'argano e il verricello, che, dopo la ruota del vasaio, hanno rappresentato forse la più importante applicazione del moto rotatorio. Impiegati nella costruzione di opere monumentali per il sollevamento di grossi blocchi di pietra o nelle miniere per portare in superficie il materiale scavato, congegni di questo tipo sono stati largamente utilizzati dai Greci anche in due settori assai diversi, ma ugualmente caratteristici della loro cultura: la navigazione e il teatro. Da un lato pulegge e verricelli sono entrati a far parte stabilmente dell'attrezzatura delle navi e dall'altro sono andati ad arricchire gli apparati scenici: il proverbiale Deus ex machina (ossia il Dio che, al termine di una commedia o di una tragedia, scendeva dal cielo a scioglierne le intricate vicende) veniva calato sulla scena appunto per mezzo di un sistema di carrucole e pulegge.
Un altro importantissimo dispositivo introdotto dai Greci fu la vite, di cui abbiamo parlato a proposito delle presse da vino o da olio. L'invenzione della vite è attribuita ad Archita di Taranto, filosofo e matematico pitagorico del VI secolo a.C. Un apparato per il sollevamento dell'acqua fondato sul principio della vite e chiamato dai latini cochlea (= «chiocciola») per la caratteristica forma delle sue volute, è tradizionalmente attribuito ad Archimede (è infatti detto comunemente «vite di Archimede»), ma pare che fosse già da tempo usato in Egitto per l'irrigazione. Nel mondo antico venivano costruite prevalentemente viti di legno, ma dove era necessaria una maggiore precisione si utilizzavano anche viti metalliche, realizzate avvolgendo attorno ad un cilindro di legno una sottile lamina di metallo a forma di triangolo rettangolo, con uno dei cateti parallelo all'asse del cilindro. Un dispositivo per ricavare una vite da un cilindro di legno è descritto nel I secolo d.C. da Erone di Alessandria.
Neppure i Romani, i cui maggiori titoli di merito nel campo della tecnologia vanno forse cercati nell'edilizia e nella costruzione delle grandi opere pubbliche (ponti, strade, acquedotti, ecc.), hanno introdotto grandi innovazioni nella meccanica. Il sorgere e l'affermarsi della potenza di Roma dettero senza dubbio un notevole impulso all'adozione di dispositivi meccanici e alla fabbricazione di macchine ad uso militare e civile. In maggioranza però si trattava di dispositivi e di macchine di tipo tradizionale. L'unica importante eccezione è la ruota idraulica, descritta nel I secolo d.C. da Vitruvio (un ingegnere romano, autore del De Architectura, uno dei più celebri trattati del genere), ma che in forma diversa era già stata utilizzata in Grecia un paio di secoli prima.
La ruota ad acqua, diretta antenata della moderna turbina idraulica, era davvero una macchina capace di rivoluzionare le tecniche produttive. A parte le vele, che sfruttavano la forza del vento per la propulsione delle imbarcazioni, si trattava del primo apparato capace di fornire potenza a spese di energia non animale. Le possibili applicazioni di questa macchina (che all'inizio fu utilizzata quasi esclusivamente per la macinazione dei grani) erano innumerevoli e le sue fonti di energia (corsi e cadute d'acqua) erano largamente disponibili ovunque. Ma la società antica non sapeva che cosa farsene. Anche se non mancarono realizzazioni vistose, come il grande mulino di Barbegal, vicino ad Arles, che era mosso da sedici ruote idrauliche accoppiate ad otto livelli differenti, le sue potenzialità non vennero sfruttate in modo generale e sistematico sino al Medio Evo.

MACCHINA, MECCANICA

«Macchina» viene dal latino machina, che a sua volta deriva dal greco (dorico) makhanà = «espediente», «congegno». Sempre da makhanà, ma più antico, viene il termine del latino arcaico (e poi del latino volgare) macina da cui l'italiano «macina» (ossia la mola, che essendo la macchina più antica, è la macchina per antonomasia). Più recente è invece il latino mechanica che viene dal greco (ionico) mekhaniké [tékhne]. «Meccanica» è collegato con «macchinazione» (latino machinatio dal greco mekhanàomai = «medito un'astuzia»).

MACCHINE SEMPLICI

LEVA

La leva è una macchina semplice costituita da un'asta rigida che gira intorno ad un punto di appoggio fisso detto fulcro e sulla quale agiscono due forze dette rispettivamente potenza e resistenza. La distanza tra il fulcro e il punto di applicazione della potenza si dice braccio della potenza mentre la distanza tra il fulcro e il punto di applicazione della resistenza si dice braccio della resistenza. Se il fulcro si trova tra la potenza e la resistenza la leva si dice di primo genere; se la resistenza si trova tra il fulcro e la potenza la leva si dice di secondo genere; se è invece la potenza che si trova tra il fulcro e la resistenza, la leva si dice di terzo genere. Sono leve di primo genere la bilancia, le forbici, le tenaglie; sono leve di secondo genere il remo, la carriola, lo schiaccianoci, la pressa a vite o a pesi che abbiamo descritto; sono leve di terzo genere le molle, le pinze, l'avambraccio umano.
La leva si dice vantaggiosa quando in condizioni di equilibrio la potenza è minore della resistenza. Il principio di Archimede dice che la potenza P sta alla resistenza R come il braccio della resistenza r sta al braccio della potenza p:

P : R = r : p

In base a questa relazione risulta evidente che le leve di primo genere sono vantaggiose quando il fulcro e più vicino alla resistenza (r) che alla potenza (p), quelle di secondo genere sono sempre vantaggiose, quelle di terzo genere sono sempre svantaggiose.
Schematizzazione del funzionamento delle leve

CUNEO

Il cuneo è un prisma rigido la cui sezione è un triangolo isoscele ABC, la cui base AB è detta testa, e il lato BC è detto fianco. In teoria la potenza sta alla resistenza che si esercita su uno dei fianchi come la lunghezza della testa sta alla lunghezza del fianco (in pratica, per effetto degli attriti, occorre una potenza molto superiore):

P : R = AB : BC

Questa macchina dunque risulta tanto più vantaggiosa quanto più piccolo è l'angolo in C. Sul principio del cuneo funzionano le scuri, i coltelli, gli aghi, ecc.

PIANO INCLINATO

Il piano inclinato è una macchina semplice che permette di sollevare il peso P mediante una forza F parallela al piano stesso. Per mantenere l'equilibrio è necessario che il rapporto tra la forza F e il peso P sia uguale al rapporto tra il lato BC e il lato AB del triangolo ABC; ossia:

F : P = BC : AB

Quanto minore sarà l'angolo in A, tanto minore sarà il lato BC e tanto minore, quindi, la forza necessaria a mantenere l'equilibrio. Ciò significa che con un piano poco inclinato sarà più facile sollevare il peso P.

VITE

La vite è uno sviluppo del principio del piano inclinato: e un piano inclinato arrotolato intorno al cilindro. Il sistema vite-madrevite trasforma il movimento rotatorio della vite in un movimento rettilineo della madrevite e viceversa, realizzando contemporaneamente una grandissima moltiplicazione delle forze.

PULEGGIA

La puleggia e un sistema di trasmissione del moto rotatorio per mezzo di funi, cinghie o catene costituito, come la carrucola, da una ruota che gira intorno a un asse. Il principio di entrambe è che una piccola forza applicata alla periferia della ruota (corona) si trasforma in una grande energia in prossimità dell'asse (mozzo). La corona è a gola se l'organo di trasmissione è costituito da una fune o da una catena, ed è piana se l'organo di trasmissione è costituito da una cinghia.

CARRUCOLA

La carrucola è una macchina semplice per il sollevamento dei pesi, costituita da una ruota che gira intorno a un asse fissato ad una staffa. Sul bordo della ruota è praticata una scanalatura, detta gola, che ospita una fune o una catena che è l'organo di trazione. La carrucola si dice fissa quando la staffa è assicurata a un sostegno fisso e il peso da sollevare e attaccato ad un capo della fune; si dice mobile quando al sostegno fisso è assicurato un capo della fune, mentre il peso è attaccato alla staffa.
Schema di funzionamento di una carrucola

LE MINIERE

Il lavoro in miniera si era sviluppato come vera e propria attività specializzata già in età neolitica, quando la ricerca di buone varietà di selce aveva indotto i primi minatori della storia a non accontentarsi degli affioramenti superficiali (estrazioni a cielo aperto), e a scavare pozzi e gallerie sotterranee. Con lo sviluppo della metallurgia le tecniche minerarie dovettero adeguarsi alle sempre crescenti richieste di materia prima, intensificando sia la ricerca di nuovi giacimenti sia, soprattutto, lo sfruttamento di quelli già noti. Le pareti e i tetti delle gallerie venivano sostenuti con appositi puntelli e travi. Il piccone, la mazza, lo scalpello e il cuneo erano gli utensili prevalentemente usati per aprirsi il passo fra le rocce. Quando queste, per la loro durezza, opponevano molto resistenza si faceva ricorso al fuoco. La roccia veniva riscaldata e quando raggiungeva un'alta temperatura il fuoco veniva spento e sulla superficie riscaldata si gettava dell'acqua: il brusco salto di temperatura provocava la spaccatura della roccia. Il fuoco veniva anche utilizzato per aumentare il tiraggio dei pozzi della miniera e per rinforzare così la ventilazione delle gallerie. Le ceste contenenti il minerale estratto venivano portate in superficie a dorso d'uomo, oppure legandole ad una fune che si avvolgeva a un cilindro orizzontale o a più sofisticati sistemi di pulegge e carrucole sistemati alla bocca del pozzo.
Grandi difficoltà (che spesso diventavano insuperabili inducendo all'abbandono del pozzo) si presentavano quando lo scavo raggiungeva il livello di una falda acquifera. Per drenare pozzi e gallerie si usavano le «norie», impianti costituiti da una catena o cinghia chiusa che girava attorno a due tamburi trascinando una serie di secchi o cassette, e le viti di Archimede (o coclee), una tecnica quest'ultima diffusa soprattutto dai Romani. Ai Romani si deve poi l'introduzione delle ruote ad acqua: in una miniera di Rio Tinto in Spagna, l'acqua veniva sollevata per un'altezza di trenta metri per mezzo di una serie di otto coppie di ruote. Il sistema più usato era però sempre il semplice prosciugamento a mano. Nella sua Historia Naturalis, Plinio il Vecchio parla di una miniera che forniva ad Annibale 135 kg di argento al giorno, nella quale centinaia di portatori, disposti a catena lungo le scale dei pozzi, si passavano ininterrottamente, giorno e notte, secchi di acqua «formando così un grande fiume».
L'escavazione di pozzi e gallerie e soprattutto il drenaggio delle acque costituirono per tutta l'antichità problemi di difficile soluzione sia dal punto di vista tecnico sia da quello economico, funzionando da fattori frenanti nello sviluppo dell'attività mineraria. Finché il lavoro di estrazione poteva avvenire a cielo aperto o i giacimenti risultavano relativamente accessibili, lo sfruttamento delle miniere era affrontato anche da singoli artigiani indipendenti; ma se si doveva scavare un impegnativo sistema di pozzi e gallerie poteva rendersi necessario il concorso di centinaia o addirittura di migliaia di persone. L'impresa poteva allora essere affrontata con successo solo da chi possedeva i mezzi per reclutare una manodopera così numerosa e per imporle un lavoro che non era solo faticoso e pericoloso, ma non di rado veramente disumano. In linea di massima non poteva essere che lo Stato. Condannare i criminali al lavoro forzato nelle miniere era uno dei modi in cui le autorità pubbliche contribuivano a raccogliere la manodopera necessaria. Tra i forzati la mortalità era altissima: damnare ad metalla (come dicevano i giuristi romani) era una pena forse peggiore della morte, e in ogni caso portava alla morte nel giro di qualche anno.
Uno dei principali bacini minerari della Grecia classica era il distretto del Laurio, nell'Attica, da cui gli Ateniesi ricavavano argento, mercurio, ocra, minio, cinabro. Con un'estensione di circa ventimila ettari, il Laurio era stato, nel VI secolo a.C. proprietà personale del tiranno Pisistrato, ma intorno al 510 a.C., con l'avvento della democrazia in Atene, era stato sequestrato ai suoi eredi ed era entrato a far parte del demanio della polis. Lo sfruttamento di pozzi e cave era affidato ad appaltatori privati che versavano alla polis un sostanzioso canone di affitto. Il frutto degli appalti, che nei primi decenni era stato distribuito tra i cittadini, quando cominciò l'ascesa di Atene ad una posizione di egemonia tra le città greche, fu soprattutto destinato a coprire le spese per la flotta da guerra, principale (e costoso) strumento della potenza ateniese.
Nei momenti di più intensa attività estrattiva, tra la metà del V e la metà del IV secolo a.C., gli addetti alle cave e alle miniere del Laurio giunsero ad essere trentamila. Ma l'occupazione variava sensibilmente seguendo le oscillazioni del valore dell'argento: al tempo di Alessandro Magno, ad esempio, quando l'argento perse quasi la metà del suo valore, pare che l'attività estrattiva sia stata praticamente abbandonata per non essere ripresa che un secolo più tardi, quando il prezzo dell'argento tornò a livelli remunerativi.
La manodopera era costituita in massima parte da schiavi e forzati e spesso erano schiavi anche i soprastanti che dirigevano il lavoro per conto dei concessionari. I lavoratori liberi costituivano una minoranza, ma conservarono sempre un certo peso nella forza-lavoro complessiva. Una severa normativa relativa alle condizioni di lavoro e alla prevenzione degli infortuni cercava di difendere, nell'interesse stesso della polis, la manodopera dal supersfruttamento di appaltatori senza scrupoli. I titolari delle concessioni per lo sfruttamento di pozzi e cave erano infatti per lo più piccoli imprenditori dotati di scarsi mezzi e affamati di guadagno, che prendevano a nolo da grandi proprietari di schiavi i lavoratori di cui avevano bisogno e cercavano di spremere da loro tutto il possibile. Pare che in ultima analisi fossero proprio i proprietari di schiavi a beneficiare più largamente dei profitti dell'attività mineraria: dare a nolo schiavi era un'attività assai più lucrosa di quella dei concessionari che, stretti tra il canone dovuto alla polis e il costo degli schiavi, raramente riuscivano ad accumulare un sia pur mediocre patrimonio.

ACQUA PER LE CITTÀ

Nell'antichità la necessità degli uomini di rifornirsi di acqua condizionava i loro insediamenti, tanto che il passaggio dal villaggio agricolo autosufficiente ai grossi agglomerati urbani, che richiedevano la disponibilità di ingenti quantitativi d'acqua, si realizzò solo in prossimità di grandi fiumi. In assenza di fiumi, piccoli insediamenti umani potevano vivere dove lo permetteva la struttura del terreno, cioè dove la roccia permeabile in superficie, seguita a poca profondità da strati impermeabili, consentisse la formazione di falde acquifere poco profonde. Queste infatti possono dar vita a sorgenti superficiali, oppure essere raggiunte attraverso l'escavazione di pozzi.
I pozzi possono anche soddisfare i fabbisogni di grossi centri abitati se si scava ad una profondità (oltre i 30 m) molto maggiore di quella dello stato permeabile di superficie, in modo da raggiungere le falde acquifere sottostanti: sfruttando la pressione dell'acqua sugli strati impermeabili fra i quali è racchiusa, si può far salire l'acqua fino alla sommità di tali pozzi da dove defluisce anche a migliaia di litri al minuto. Sono questi i «pozzi artesiani» già praticati nell'antico Egitto, (anche se il nome deriva da Artois, una località Francia).
Anche l'acqua piovana può servire ad un approvvigionamento idrico continuo purché possa essere conservata in bacini o serbatoi adeguati: a questo scopo possono essere utilizzati gli avvallamenti del terreno, opportunamente ostruiti da sbarramenti di pietra e di terra o da opere murarie. Con dighe e sbarramenti può essere trattenuta anche l'acqua dei fiumi. Capita che falde acquifere si trovino sui fianchi delle montagne mentre a valle non vi sia adeguata fornitura di acqua: antichi sistemi, ancor oggi in uso per esempio in Iran, nella Siria settentrionale e nel Nord Africa, consentono di trasportare a valle l'acqua derivata da sorgenti di collina attraverso gallerie inclinate, scavate nella roccia o rivestite con lastre in pietra, che evitano l'evaporazione e mantengono l'acqua libera da inquinamenti.
La tecnica delle condutture sotterranee, che seguivano la conformazione del terreno ed erano munite di pozzetti di sfiato verticali, si tramise dall'Oriente al bacino del Mediterraneo; si affermò poi in Grecia, dove si conservò fino all'epoca del dominio romano. Quando si impose la necessità di trasportare l'acqua a notevole distanza si dovette ricorrere a sistemi del tutto diversi: gli acquedotti a «pendenza costante» e le condutture a «pressione» e a «sifone». Il sifone permetteva di scavalcare gli ostacoli senza aggirarli e senza costruire gallerie. Esso richiedeva però condutture molto robuste, capaci di resistere alla gran forza sviluppata dall'acqua in corrispondenza delle depressioni. Le condutture furono costruite dai Greci in pietra forata e dai Romani anche in piombo.
I Romani preferivano costruire canali scoperti e acquedotti in muratura a pendenza costante (come erano del resto anche i primi acquedotti sumerici ed assiri), che, se ponevano rilevanti problemi architettonici, consentivano di trasportare una quantità di acqua molto maggiore, senza dover approntare - cosa assai ardua per quei tempi - tubi di grande diametro e sufficientemente resistenti. Mantenere costante la pendenza era un problema di non facile soluzione, specialmente se l'acquedotto doveva superare gravi accidentalità del terreno.
Prima di essere distribuita alla popolazione, l'acqua veniva immessa in appositi bacini a due scomparti e con piani di fondo inclinati, nei quali subiva un rallentamento del flusso: in tal modo le particelle in sospensione nel liquido cadevano verso il fondo (fenomeno della decantazione o sedimentazione) rendendo l'acqua limpida e chiara.
L'alimentazione operava sul principio della presa costante anche perché non si conoscevano strumenti per regolare o limitare il flusso a certe ore dalla giornata: lo spreco di acqua rendeva necessario una vasta rete di approvvigionamento (a Roma vi erano nell'età classica ben otto acquedotti; ancora nel IV secolo d.C. vi erano a Roma 11 bagni pubblici, 856 bagni privati di dimensioni minori e 1352 fontane e cisterne). Nel Medio Evo solo alcune città riuscirono a mantenere in efficienza gli antichi acquedotti romani: per il resto il rifornimento idrico era affidato alle cisterne ed ai pozzi privati oppure ai pozzi ed alle fontane comunali.
Il sistema impiegato dai Romani per la distribuzione dell'acqua entro le città, che si mantenne per tutto il Medio Evo, differiva completamente da quello attuale. Negli impianti moderni le diramazioni principali partono generalmente da un punto di rifornimento centrale (pompa): ad esso sono collegate alcune grosse condutture sotterranee, nelle quali si innestano quelle per il rifornimento all'interno delle case. Presso i Romani, invece, l'acquedotto pubblico terminava di solito in un «castello d'acqua primario», che riforniva parecchi altri castelli a mezzo di apposite diramazioni. Queste alimentavano a loro volta numerosi serbatoi che erano dislocati nei diversi quartieri e dai quali i cittadini prelevavano l'acqua di cui abbisognavano. Solo in casi eccezionali, il privato che avesse avuto la propria abitazione a pianterreno e nelle immediate vicinanze della conduttura principale poteva ottenere, dietro pagamento di un forte canone il privilegio di applicare una «scatola di derivazione».
L'acquedotto romano dei miracoli a Mérida (Spagna)

L'acquedotto romano a Gard (Francia)


ARCHIMEDE E LA MECCANICA ANTICA

Se il contributo della cultura greca alla costruzione e all'uso di congegni meccanici è stato nel complesso modesto, con la scuola pitagorica e poi, soprattutto, in età ellenistica, con Archimede (c. 287 - c. 212 a.C.) e con gli studiosi raccolti intorno al Museo di Alessandria, la meccanica è diventata una vera e propria scienza, nella quale, cioè, le macchine venivano pensate come costruzioni geometricamente definite, le cui prestazioni potevano essere studiate teoricamente ed esattamente previste. Archimede, ad esempio, come ricorda Plutarco (lo storico greco del II secolo d.C., autore delle Vite parallele), era in grado di calcolare il numero di pulegge necessarie per sollevare un dato peso con una forza data.
Archimede è sicuramente uno dei più grandi matematici di tutti i tempi. La sua enorme importanza nella storia della scienza e della tecnica occidentali è legata più che alle invenzioni che gli sono attribuite, al metodo da lui seguito. Per un verso Archimede conferì alla meccanica la dignità di una vera e propria disciplina matematica: la sistematicità dei suoi studi di statica (la teoria della leva) e di idrostatica (la teoria del galleggiamento), richiamavano la coerenza con la quale un matematico della generazione precedente, Euclide, aveva riordinato negli Elementi (un'opera destinata a restare per millenni un insuperato modello di rigore scientifico) le conoscenze geometriche del suo tempo. Per un altro verso affrontò con assoluta spregiudicatezza problemi pratici e costruttivi, verso i quali la grande maggioranza dei matematici greci, seguendo le indicazioni e l'esempio di Platone, ostentava disinteresse o disprezzo. Tra l'altro, come Archimede stesso ebbe a dichiarare, proprio esperienze costruttive e considerazioni meccaniche lo avevano guidato ad alcune tra le più importanti scoperte geometriche. E si può aggiungere che per la stessa via riuscì a intravedere la possibilità di quel calcolo infinitesimale che doveva attendere ancora due millenni per essere messo a punto dai matematici europei.
Almeno in parte la lezione di Archimede fu ripresa e continuata dagli studiosi alessandrini, nel cui ambiente, del resto, egli stesso si era formato. A uno dei maggiori meccanici alessandrini, Ctesibio, vissuto nel II secolo a.C., è attribuita l'invenzione di dispositivi ad aria compressa, di pompe ad aspirazione ed anche della clessidra e dell'organo idraulico. Il più famoso continuatore di Ctesibio fu Erone che abbiamo già citato come inventore di un dispositivo per costruire viti. Autore di studi sulla statica, sulle macchine semplici, sulle macchine da guerra, ecc., Erone è noto soprattutto per i suoi originali apparati automatici, nel cui progetto sono inclusi moltissimi nuovi meccanismi, tra cui l'albero a gomiti, la camma, sistemi di rotazione con contrappesi, una sorta di elementare macchina a vapore, ecc. Si può dire che la meccanica in senso moderno sia nata ad Alessandria, la cui scuola ha segnato la transizione tra i congegni elementari fino allora costruiti e i dispositivi di gran lunga più complessi, ai quali soltanto è appropriato attribuire il nome di macchine.
Nonostante l'impressionante modernità dell'opera di Archimede e l'assidua ricerca degli studiosi alessandrini la meccanica nell'età classica restò un fenomeno quasi esclusivamente intellettuale senza importanti conseguenze nel mondo della produzione. Matematici, ingegneri e architetti producevano progetti di macchine assai complesse, che però non venivano realizzati, o, se lo erano, erano per lo più destinati a giochi meccanici e a macchine da teatro; i loro stessi autori consideravano queste invenzioni come trovate più curiose che utili. Gli strumenti di lavoro, i sistemi di manipolazione delle materie prime e i mezzi di trasporto comunemente usati restarono fondamentalmente quelli tradizionali e se ebbero qualche miglioramento fu per merito non di studiosi e ricercatori, ma degli artigiani che li costruivano o li adoperavano.
Perché l'antichità classica, pur avendo gettato le fondamenta della moderna scienza meccanica non ha conosciuto il «macchinismo», ossia l'uso sistematico e generalizzato delle macchine? Secondo alcuni il mondo antico non aveva bisogno di macchine perché aveva larga disponibilità di quella specie di macchine viventi che erano gli schiavi. Secondo altri un effetto fortemente negativo della schiavitù fu il profondo disprezzo che si diffuse soprattutto negli ambienti intellettuali per il lavoro manuale: la reciproca estraneità tra la tecnica, attinente alla sfera delle attività servili legate alla produzione dei beni, e la scienza, attinente alla sfera delle attività liberali e di studio, avrebbe determinato l'arresto del progresso tecnico.
Altri ancora ritengono, invece, che la schiavitù non c'entri affatto. Sarebbe stata la scienza greca, che, per il suo carattere speculativo ed astratto, non sarebbe stata in grado di spingere le tecniche produttive sino al livello del macchinismo: la meccanica, ad esempio, era ferma alla «statica» di Archimede mentre il macchinismo è inconcepibile senza la «dinamica» di Galilei e di Newton.
L'ultima tesi è forse la meno convincente di tutte. La meccanica di Galilei e di Newton ha preso l'avvio, ma con quasi due millenni di ritardo, proprio dalla riscoperta di Archimede e della sua statica. La figura di Archimede sembra opporre una decisa smentita anche alla seconda tesi: le meravigliose macchine belliche da lui costruite per difendere Siracusa dall'assedio dei Romani stanno a dimostrare che, quando c'era un interesse preciso per le applicazioni pratiche delle teorie scientifiche, la presunta separazione tra scienza e tecnica poteva essere facilmente superata. Quello di Archimede non è affatto un caso isolato. I meccanici di Alessandria associavano in modo sistematico l'interesse teorico-matematico alla pratica costruttiva e all'escogitazione ingegneresca.
Nello specifico campo militare, poi, la ricerca sistematica e organizzata di nuovi apparati di distruzione aveva preceduto di parecchio le realizzazioni di Archimede. All'inizio del secolo precedente e nella sua stessa città, Siracusa, il tiranno Dionigi il Vecchio, in vista di una guerra con Cartagine, aveva raccolto una équipe di specialisti con il compito specifico di progettare nuove e più micidiali armi: ne erano uscite le prime catapulte e alcune navi da battaglia che avendo un maggior numero di remi riuscivano a speronare le navi avversarie con molto maggiore violenza. Qualche tempo dopo sembra che Filippo di Macedonia abbia promosso analoghe ricerche volte a perfezionare la nuova arma della catapulta; di sicuro suo figlio, Alessandro Magno, ne poté mettere in campo degli esemplari dotati di potenza inusitata. Il settore dell'ingegneria militare, insomma, dove l'incentivo a migliorare gli strumenti e le tecniche di distruzione non è mai venuto meno, ha conosciuto un progresso sostenutissimo.
Resta da spiegare perché un incentivo del genere, tale da promuovere un analogo sviluppo, non abbia agito nel campo degli strumenti e delle tecniche di produzione. La prima delle tesi che abbiamo ricordato, quella, cioè, che attribuisce ogni responsabilità alla schiavitù, presenta una grossa falla: a partire già dal I secolo d.C. gli schiavi non costituirono più una manodopera abbondante e a buon mercato e tuttavia nessuno mostrò interesse a realizzare apparati meccanici capaci di risparmiare lavoro. Si preferì, semmai, tornare a utilizzare il lavoro libero o, più frequentemente, quello semilibero di contadini e artigiani che erano vincolati in un modo o nell'altro ai loro padroni o alle loro occupazioni.
Il fatto è che i lavoratori liberi, fatta eccezione per alcune categorie di artigiani specializzati, risultavano cronicamente sovrabbondanti rispetto alle possibilità d'impiego. A questa situazione di disoccupazione o di sotto-occupazione, che era particolarmente evidente (e pericolosa) nelle grandi metropoli come Roma, le autorità pubbliche dovevano far fronte con elargizioni di sussidi (congiaria) e distribuzioni di grano (frumentationes), ma anche con provvedimenti volti a limitare l'impiego di manodopera schiavile e a offrire alla plebe nuove occasioni di occupazione: nella realizzazione delle grandi opere pubbliche, per esempio, una certa quota di posti di lavoro era di solito riservata ai lavoratori liberi. Una situazione di questo genere non era certo favorevole al progresso tecnico, o almeno a quel tipo di progresso che ha come fine essenziale di risparmiare lavoro. Lo storico romano Svetonio (c. 70 - c. 140 d.C.) racconta che nel corso dei grandi lavori per il rinnovamento edilizio di Roma promosso tra il 69 e il 79 d.C. dall'imperatore Vespasiano, un ingegnere aveva escogitato un apparato meccanico per il trasporto di pesanti colonne sul Campidoglio. Vespasiano si compiacque moltissimo dell'invenzione e premiò generosamente l'inventore, ma proibì assolutamente di mettere in opera il congegno, proprio per non togliere lavoro alla plebe.
Risparmiare manodopera, insomma, non interessava a nessuno e tanto meno allo Stato, che era il principale soggetto economico e a cui toccava in ogni caso provvedere al mantenimento della plebe. Il solo incentivo al progresso tecnico era dunque il miglioramento della qualità del prodotto, e entro questi limiti il mondo classico realizzò tutto il progresso di cui aveva bisogno. La produzione di oggetti di lusso raggiunse livelli di raffinatezza ineguagliabili. Nella costruzione di edifici e di opere pubbliche solo da uno o due secoli gli Europei hanno dimostrato di saper fare meglio dei Romani. In quanto a comfort abitativo, le ricche dimore romane, dotate all'inizio della nostra era di vetri alle finestre e di efficienti sistemi di riscaldamento centrale, non avevano davvero niente da invidiare alle nostre case ed erano sicuramente superiori alle dimore signorili dell'Europa medievale e moderna. Nel campo militare, infine, dove non si è mai trattato di risparmiare forza-lavoro, ma semmai di farne strage, le prestazioni delle macchine belliche romane sono rimaste insuperate per molto più di un millennio, fino alla messa a punto di armi da fuoco efficienti.
[Figura: Questa catapulta lanciasassi di grandi dimensioni (la sua struttura principale che conteneva la slitta e il vericello misurava più di cinque metri) era in grado di lanciare pietre di 25 chili e più. La grande innovazione rispetto alla catapulta era rappresentata dal tenditore, ossia dalle due molle di torsione (che nella figura a destra sono viste frontalmente) costituite da due fasci di corde di budello. Gli studiosi di Alessandria tra il III e il II secolo a.C. riuscirono a mettere a punto una formula matematica che esprimeva il rapporto tra il "calibro" della catapulta e la lunghezza della freccia o il peso della pietra da lanciare. Il "calibro" era il diametro della molla (o più esattamente del foro nel quale veniva alloggiato e messo in tensione il fascio di corde) e in rapporto alla sua grandezza venivano determinate tutte le altre grandezze della macchina.]
Catapulta lanciasassi di grandi dimensioni

Simulazione tridimensionale del funzionamento di un trabocco

ARTI SERVILI E ARTI LIBERALI

Il disprezzo che le società schiavistiche dell'antichità hanno nutrito per qualsiasi forma di lavoro manuale ha certamente frenato la ricerca tecnologica, che richiede familiarità con i processi produttivi, interesse per la manipolazione dei materiali, capacità di fare delle cose con le proprie mani. Nel mondo classico Ie tecniche o «arti» (da non confondere però con quelle che oggi indichiamo con questo termine, ossia le arti figurative, la musica, ecc.) venivano distinte in servili e liberali. Le prime erano appunto quelle che oggi chiamiamo semplicemente «tecniche»: «si esercitano con le mani - scriveva il filosofo romano Lucio Anneo Seneca (c. 4 a.C. - 65 d.C.) in una lettera al suo amico Lucilio - e servono a procurarsi i mezzi per vivere; in esse non vi è alcuna pretesa di bellezza o di nobiltà morale». Le seconde erano dette anche «enciclopediche» e comprendevano le discipline intellettuali che sono alla base di ogni buona cultura generale, e cioè, secondo la classificazione più comune nell'antichità, ereditata poi dalle scuole medievali: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, musica e astronomia.
Un terzo gruppo di tecniche era rappresentato dalla «teatrica», ossia dalle arti che, come diceva Seneca, «servono per passatempo [e] si propongono di dar piacere agli occhi e agli orecchi». Non si trattava di quelle che oggi si indicano genericamente con l'espressione «arti dello spettacolo» (teatro, danza, ecc.), ma di tecniche in senso proprio (e in particolare di tecniche meccaniche) applicate allo spettacolo e dirette ad ottenere quelli che chiameremmo «effetti speciali». Come spiegava Seneca, «fra queste arti c'è quella dei costruttori di congegni, i quali inventano ordigni che si sollevano da soli, e piani di edifici che si innalzano senza il minimo rumore e altri vari sorprendenti spettacoli allorché o si aprono oggetti che erano saldamente connessi nelle loro parti o spontaneamente si uniscono quelli che erano disgiunti o a poco a poco si abbassano quelli che erano elevati: ciò attira l'ammirazione degli ignoranti, che si stupiscono di tutti gli effetti inaspettati e di cui ignorano le cause».
È evidente che, per quanto Seneca apprezzasse esclusivamente le arti liberali o, per meglio dire, «quelle che indirizzano tutti i loro sforzi alla virtù», la teatrica gli sembrava, tra le tecniche, la meno ignobile, proprio perché non aveva niente a che fare con la produzione di ricchezza e si avvicinava di più ad un mero esercizio dell'ingegno. Le invenzioni utili, scriveva, «sono invenzioni di esseri inferiori; la sapienza siede su un trono più alto e i suoi ammaestramenti sono diretti non alle mani, ma alle anime. [...] Essa, lo ripeto ancora una volta, non costruisce oggetti utili per i bisogni della vita». Anche gli ingegneri della scuola di Alessandria, che pure avevano un atteggiamento molto più costruttivo nei confronti delle tecniche produttive e del mondo del lavoro si dilettavano nel progettare giochi meccanici e complicati apparati spettacolari, senza sentirsi affatto imbarazzati dalla loro pressoché totale inutilità.

DIVISIONE TECNICA DEL LAVORO E DIVISIONE DELLA SOCIETÀ IN CLASSI

Senofonte, uno dei grandi storici della Grecia classica, vissuto tra il V e il IV secolo a.C., ha dedicato un brano celebre della sua Ciropedia (una specie di storia romanzata di Ciro il Grande e della sua educazione) alla divisione del lavoro, il cui principale beneficio gli pareva che consistesse nella migliore qualità del prodotto conseguente alla più alta specializzazione del produttore. Nella società moderna il principale vantaggio della divisione del lavoro consiste nel risparmio di tempo-lavoro che essa consente di realizzare e che si traduce in un minore costo di produzione.

Nelle grandi città gli articoli dell'artigianato presentano una fattura più raffinata [...]. Nelle piccole città avviene che la stessa persona fabbrichi letti, porte, aratri, tavoli, e magari costruisca persino le case, ben lieta di avere, con tanti mestieri, una clientela sufficiente per campare. Ma e impossibile che un uomo, che fa tanti lavori, li faccia tutti bene. Nelle grandi città, invece, grazie all'alto numero di persone che hanno bisogno di questo o quell'oggetto, basta anche una sola attività per dar da vivere a un uomo, e spesso non è neppure necessario svolgerla per intero. E infatti c'è chi fa solo scarpe per uomo, e chi solo scarpe per donna; si dà addirittura il caso che uno riesca a vivere limitandosi semplicemente a cucire le scarpe, oppure a tagliare il cuoio, o a tagliare soltanto vestiti, oppure, senza far nulla di tutto questo, mettendo semplicemente insieme i vari pezzi. Ne consegue inevitabilmente che chi passa tutta la vita in un'attività così limitata, debba anche eseguirla meglio degli altri. La stessa cosa avviene pure in fatto di vivande. Chi ha un solo servo per assettare i divani, apparecchiare la tavola, impastare il pane, preparare ora un piatto ora un altro, deve per forza, credo, tenersi i cibi così come vengono. Ma là dove un servo ha la precisa mansione di far bollire la carne, un altro di farla arrostire, un terzo di far bollire i pesci, un quarto di farli arrostire, un quinto di preparare le pagnotte, e neppure le pagnotte di ogni specie, perché basta che sappia dare loro la forma in voga, per forza, io credo, un prodotto eseguito con questo sistema deve riuscire molto superiore sotto ogni riguardo agli altri.

Quella di cui parla Senofonte è una distinzione puramente tecnica di mansioni tra diversi lavoratori che collaborano insieme nella produzione. Quella a cui fa riferimento il notissimo apologo di Menenio Agrippa non è, invece, semplice divisione tecnica del lavoro nell'ambito della produzione, ma divisione di ruoli nell'ambito della società tra chi comanda e chi obbedisce. tra chi decide per gli altri e chi produce per gli altri: è cioè divisione in classi, diseguaglianza sociale. Che questa divisione (o diseguaglianza) sociale va a beneficio di tutti, come pretende Menenio Agrippa, è una tesi che le classi dominanti ripropongono da millenni infinite varianti; le classi dominate (come anche si dice «subalterne») sono però, almeno di solito, di tutt'altro parere. L'episodio a cui si riferisce l'apologo di Menenio Agrippa è raccontato dallo storico romano Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.): scontenta dei suoi governanti, la plebe di Roma aveva messo in atto una sua tipica forma di protesta, la secessione, che consisteva nell'abbandonare in massa la città.
Si trattava in sostanza di una sorta di sciopero generale.